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Quattordici tra scienziati e premi Nobel – tra cui anche l’infermiera Paola Di Giulio, docente all’Università di Torino, ricercatrice e vicepresidente del Consiglio superiore di Sanità – hanno lanciato l’appello per salvare il Servizio sanitario nazionale, sempre più sottofinanziato, affermano, con medici e infermieri insoddisfatti e malpagati, un’assistenza territoriale non al passo con i bisogni della popolazione che invecchia e il divario tra Nord e Sud che aumenta.
È n atto una deriva verso una “sanità per censo”: chi ha risorse proprie si paga le cure; chi ha meno disponibilità economiche è costretto ad attendere i tempi “biblici” di attesa del servizio sanitario, ha sottolineato il 21° Rapporto annuale AIOP-Censis, secondo il quale sono sempre di più coloro che rinunciano a prenotazioni nel sistema sanitario nazionale e si rivolgono a strutture a pagamento. Ogni 100 tentativi, la quota di chi sceglie il privato puro o intramoenia è di oltre il 34% tra i redditi bassi, del 40% tra quelli medio-bassi; con punte del 43% tra quelli medio-alti. Numeri definiti “allarmanti”.
“La tendenza, ormai già da diversi anni, appare lenta ma costante: da un Servizio Sanitario Nazionale incentrato sulla tutela del diritto costituzionalmente garantito, a tanti diversi sistemi sanitari regionali, sempre più basati sulle regole del libero mercato. Il Ssn dopo aver sostenuto l’impatto della pandemia soffre di una crisi sistemica accentuata dalla “fuga” del personale sanitario, non adeguatamente remunerato”, ha affermato la Corte dei conti durante la cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024.
La spesa sanitaria pubblica italiana, pari a circa 134 miliardi, risulta ridotta rispetto ai 423 della Germania e ai 271 della Francia. A parità di potere d’acquisto, la spesa italiana pro-capite risulta meno della metà di quella della Germania. A fronte del 21,4% di spesa privata per la sanità sostenuta dalle famiglie italiane, l’out of pocket in Francia raggiunge appena l’8,9% del valore totale, mentre in Germania si ferma all’11%. Nonostante il sottofinanziamento reggono ancora le performance del Ssn si legge nella Relazione della Corte dei conti al Parlamento sulla gestione dei servizi sanitari regionali.
In questi scenari il diritto alla salute non è più una garanzia: se c’è difficoltà di accedere alle cure per le lunghe liste d’attesa, anche se si parla di problemi oncologici, screening e altro, non può essere la soluzione di curare solo chi ha possibilità economica.
E va peggio alle regioni che, come la Campania, scontano problemi demografici e strutturali forti, nonostante i tentativi di miglioramento della situazione sanitaria, ormai da anni nella morsa del piano di rientro.
Così la nostra Regione secondo l’ultimo Rapporto del Crea Sanità, Centro di ricerca, riconosciuto da Eurostat, Istat, Cnel e Ministero della Salute, che ha valutato le performance regionali non solo dal punto di vista sanitario, ma anche sociale, è con altre cinque regioni (tutte del Sud) con livelli di performance che risultano inferiori al 32 per cento. E nel suo Rapporto sulla sanità presentato a inizio anno, su dodici indicatori sociosanitari, la Campania ha ottenuto un risultato positivo solo su quattro (spesa privata pro-capite, indice di dipendenza degli anziani, tasso di natalità e tasso di ospedalizzazione), mentre per gli altri va male con il 66% di famiglie con disagio economico per spese sanitarie, il 65% di famiglie soggette a spese sanitarie catastrofiche e solo il 21% di persone 65+ che ha fatto ricorso all’assistenza domiciliare.
Sulle liste di attesa la Campania, come ha rilevato alla fine dello scorso anno il ministero della Salute, ha utilizzato meno del 50 per cento del finanziamento e recuperato meno del 50 per cento delle prestazioni, ma con il Programma Operativo 2022-24 si sta impegnando ad una puntuale attività di ricognizione della concreta capacità operativa delle aziende per il recupero delle liste di attesa sulla base di quanto previsto dagli specifici provvedimenti regionali.
Secondo l’Agenas siamo di fronte a un sistema che sta facendo scivolare i cittadini verso la sanità a pagamento. Si sta concretizzando un secondo pilastro di finanziamento parallelo a quello pubblico e il Ministero della Salute deve riappropriarsi di un ruolo anche di programmazione, fermo restando la natura regionale della sanità. Per quanto riguarda le liste d’attesa oggi conosciamo solo quelle percepite. Non abbiamo a livello informativo contezza né siamo in grado di misurarle. L’auspicio è la creazione di un sistema in cui un soggetto terzo, l’Agenas appunto, attraverso l’informatizzazione, possa monitorare l’efficienza organizzativa, anche in termini di tempi di erogazione delle prestazioni, e dare risposte adeguate ai cittadini.
Poi una buona notizia: la nostra Regione ha raggiunto il traguardo di essere quella, sempre secondo la relazione della Corte dei conti, con la minor rinuncia percentuale alle prestazioni sanitarie: il 4,7% contro una media nel Sud del 6,2% e in Italia del 7 per cento.
Ma c’è tanto da lavorare: secondo l’Istat l’incidenza di povertà relativa familiare è al20,8% (ci sono regioni che non superano il 6%) e secondo la Caritas il rischio di povertà delle famiglie va oltre il 40 per cento.
Che fare?
I 14 scienziati hanno sottolineato anche che il grande patrimonio del Ssn è il suo personale. «Una sofisticata apparecchiatura – ricordano nell’appello – si installa in un paio d’anni, ma molti di più ne occorrono per disporre di professionisti sanitari competenti, che continuano a formarsi e aggiornarsi lungo tutta la vita lavorativa». Per i 14 è però evidente che «le retribuzioni debbano essere adeguate, ma è indispensabile affrontare temi come la valorizzazione degli operatori, la loro tutela e la garanzia di condizioni di lavoro sostenibili».
E hanno sottolineato come “particolarmente grave” la carenza di infermieri, in numero ampiamente inferiore alla media europea. La cam0ania in questo è la Regioni dove, in proporzione agli abitanti, la carenza è più pesante.
Si devono innovare gli ambiti formativi, di esercizio professionale e di autonomia per garantire la sostenibilità e l’universalità del Servizio sanitario nazionale.
Quindi si, è necessario aumentare le risorse, ma in una logica di cambio di modelli non solo per la tutela della salute ma anche per la coesione sociale.
Sempre il CREA Sanità ha messo in evidenza che l’Italia perde ancora terreno nella spesa sanitaria rispetto ai principali partner UE (quelli ‘originari’ ante 1995) ed è sempre minore anche il vantaggio rispetto ai partner più recenti (post 1995): il livello della spesa italiana è distante dalla media UE del 32 per cento.
Per portare la quota di PIL destinata alla Sanità sui valori attesi in base alle effettive disponibilità del Paese, pur ricordando che una parte significativa del PIL non è disponibile perché impegnata per gli interessi sul debito pubblico (sono il 4,3% del PIL contro una media dell’1,8% negli altri paesi), servirebbero 15 miliardi, ma questo lascerebbe un rilevante gap fra la spesa sanitaria italiana e quella dei Paesi europei di confronto; ed anche se in tal modo si eviterebbe di peggiorare ulteriormente il gap con i partner UE nel breve periodo, il vantaggio sarebbe solo transitorio, qualora il PIL dovesse continuare a crescere meno che nella media degli altri Paesi UE. E occorrerà farlo adottando una logica di prioritizzazione legata al valore sociale, la cui valutazione richiede una decisione politica, con il coinvolgimento di tutti gi stakeholder del sistema sanitario.
Sono da apprezzare gli sforzi messi in campo dal ministro della Salute e anche dalle Regioni per rafforzare la capacità del sistema di rispondere in modo sostenibile alle esigenze dei cittadini, ma la sfida sull’innovazione la vinceremo se saremo tutti capaci di introdurre una nuova organizzazione sanitaria che guarda al futuro, senza temere di operare profondi cambiamenti.
Cosimo Cicia
Presidente OPI SALERNO

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